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MOVING IMAGE IN CHINA: la poesia della Videoarte cinese al Museo Pecci (prima parte)

Benvenuti alla prima grande mostra sulla storia della videoarte cinese, realizzata in collaborazione con il Minsheng Art Museum di Shanghai. Il titolo è “Moving Image in China” e appare subito interessante l’iseazione di una tale mostra proprio in una città come Prato, così densamente abitata dalla popolazione cinese. Ancora una volta il Museo Pecci si trova ad essere un importante veicolo di confronto culturale dai risvolti veramente affascinanti. In particolare si vuole affrontare la storia del Moving Image (letteralmente Immagini in movimento) che da noi si tradurrebbe meglio con storia dei “New Media”, cioè dei nuovi mezzi che partono dalla nascita del video fino ad arrivare all’immagine digitale e all’animazione. Quindi la nostra mostra segue un ordine cronologico che parte da una data precisa, il 1988, data di nascita della videorate in Cina. E già qui abbiamo una sostanziale differenza con l’Occidente, dove non esiste un anno preciso cui riferire la nascita di questo nuovo linguaggio, né sappiamo chi lo portò di fatto per primo avanti, sappiamo però che le prime esperienze sono degli anni 60. Quindi si vede già uno scarto tra l’Occidente e la Cina per la nascita della videoarte di circa 25 anni, quindi di una generazione. Questo dovuto anche alla situazione politica della Cina contemporanea. E facciamo allora un brevissimo quadro strorico, che vedremo ci tornerà molto utile. Alla metà del ‘900 ci fu la Repubblica Popolare Cinese di Mao Zedong ed un controllo forte sulla popolazione; scrittori e intellettuali in particolare dovevano affrontare rigidi controlli ideologici. Tutta questa situazione si accentuò tra il 1966 e il 70 con la Rivoluzione Culturale e l’uscita del famoso Libretto Rosso di Mao, il quale sancì la definitiva vittoria del Partito Comunista: ogni forma di opposizione fu duramente combattuta dalle Guardie Rosse. É solo alla fine degli anni 80 che le politiche culturali si fanno meno rigide e agli artisti è concesso di confrontarsi con le opere occidentali. In particolare 2 furono i centri più aperti all’esterno, dove gli artisti potevano reperire testi sulle avanguardie europee: l’Accademia Centrale di Belle Arti di Pechino e l’Accademia del Zhejiang ad Hangzhou, divenendo due centri fondamentali per la nascita della nuova cultura.

Ma torniamo alla data dalla quale prende avvio il nostro viaggio: il 1988, la nascita della videoarte, il padre fu Zhang Peili e il video in questione è 30×30. Ma andiamolo a vedere…

SALA 1

Peili ZHANG 張 培力, 30X30 (Screenshot), 1988, single channel video installation, 32 minutes and 9 seconds

30×30 è la dimensione dello specchio che Peili (1957 Hangzhou)rompe e restaura, reincollando pezzettino per pezzettino pazientemente per poi rirompere e restaurare in un’azione infinita registrata da una telecamera fissa. Il filmato dura 180 minuti, tempo massimo consentito allora ad una registrazione video. L’opera fu mostrata per la prima volta alla mostra “The China Avant-Garde” del 1989, che fu di fatto la prima esposizione d’arte non ufficiale organizzata col consenso delle autorità. Insegnante per 22 anni e poi preside del Dipartimento dei New Media alla China Academy of Fine Arts, l’istituzione artistica più importante del Paese, Peili commenterà la sua opera 18 anni dopo la sua realizzazione. “Volevo creare un lavoro estremamente noioso”, dice, e già con questa frase ci troviamo di fronte a quella che è l’essenza di questa nuova forma d’arte legata al video: la dimensione temporale e il costante stimolare la pazienza e la curiosità nello spettatore. Ci aspettiamo sempre che succeda qualcosa da un momento all’altro e poi…?

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L’UNIVERSO DI ATHOS ONGARO

ATHOS ONGARO

Non osare è fatale”

La prima questione che le opere, e in particolare le sculture di Ongaro, sollevano è quella della definizione, nella nostra testa, di “classico”.

Athos Ongaro “Lirico”, marmo statuario, h. 220 cm

Se guardiamo il Lirico, infatti, vediamo che è realizzata anatomicamente in maniera “classica”, fattore accentuato anche dalla scelta del materiale, il marmo statuario ma se la osserviamo meglio nei suoi molteplici particolari anche, da più punti di vista, girandoci intorno, vi accorgete che c’è qualcosa di strano rispetto a ciò che siamo abituati a vedere nelle opere della classicità. Innanzitutto il corpo del sedicente poeta è sbilanciato fino alla deformazione nel suo malriuscito tentativo di cantare la lode e la sensazione che ci da in un’ultima analisi è quella di un equilibrio precario. Quel corpo che, a prima vista, ci sembrava così aggraziato e perfetto, si scompone e il canone di proporzione perfetta fra le parti del corpo umano, teorizzato dallo scultore greco Policleto nel lontano 400 a.C, va a farsi benedire. Perché la testa appare troppo piccola rispetto al resto del corpo, le mani troppo grandi e così il collo. Il tutto condito dal cinghiale sorridente e ammiccante che si struscia alle gambe di questo strano poeta, riportandolo e riportandoci nella materialità del mondo. Tra l’altro il cinghiale è il discendente di quello romano degli Uffizi.

Ongaro quindi reinterpreta l’antico, lo attualizza e lo fa anche in maniera ironica. Vedremo come l’elemento di ironia, di sberleffo, di provocazione, sia sempre presente nelle opere di Ongaro come strumento di aiuto per pensare, per riflettere sulla nostra vita e sul mondo, sulle radici della nostra civiltà. In Ongaro non c’è, come invece in molti artisti contemporanei, un rifiuto della tradizione ma anzi il passato è riproposto, nei materiali, nelle tecniche, vivendolo come una cosa non digerita, che ha ancora lezioni da dare.

Quello che vedremo sarà una continua sorpresa perché questo artista non può essere identificabile, e lui stesso non vuole esserlo, con alcun modo o maniera o stile predefinito, anzi egli è contro queste etichettature. Dice: “l’arte soffre di claustrofobia, non ce la fa proprio a stare ingabbiata nei dogmi”. Nelle sue opere assisteremo ad una messinscena inesauribile, in cui fanno la loro comparsa figure della civiltà minoica, della (come nel caso del Lirico) mitologia classica, del Cristianesimo, insieme a suggestioni che richiamano il manierismo, il neoclassicismo, ma anche il pop, il liberty e il mondo delle fiabe e dei cartoon americani, elementi sempre riletti in chiave inedita, spesso irridente e, solo in apparenza irriverente. È proprio questo che dà alle opere di Ongaro quella particolare atmosfera di incertezza esistenziale che ne costituisce il fascino specifico.

Ma addentriamoci in questo mondo.

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Moving Image in China: il senso di inquietudine dell’uomo conetmporaneo al Museo Pecci di Prato

“L’uomo vive come uno schiavo di sé stesso e dell’ambiente; ma questa vita umile, fatta di solitudine, silenzio, fantasia, tedio e passione, a volte è così insopportabile che sentiamo il desiderio di volare. É un modo per trascendere o scappare”. Così descrive la sua opera video, Fly Fly, Jiang Zhi. L’effetto del suo video è ancor più d’impatto proprio per la sua semplicità. L’artista grida la sua volglia di libertà silenziosamente, anzi con un bellissimo sottofondo di musica classica, attraverso il solo gesto di un braccio che, muovendosi dall’alto verso il basso e viceversa, richiama alla mente il battito d’ali di un uccello. Lo sfondo di quel gesto non è però il cielo ma la propria abitazione, ingrigita dal tempo, a rappresentare la vita umile di tutti i giorni.

Jiang Zhi – Fly Fly 1997

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