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Il fascino della Morte nelle Arti: lo scheletro di Hirst a Palazzo Vecchio

In ogni epoca e in ogni luogo della terra l’uomo ha cercato di dare un senso alla vita e alla morte e, soprattutto verso quest’ultima, ha sempre avuto sentimenti contrastanti di paura e attrazione. Rispetto al passato però, oggi, almeno in  Occidente, dove conta arricchirsi senza guardare in faccia nessuno, dove ognuno pensa al proprio orticello e chi se ne frega di tutto il resto… oggi, per noi, la morte è diventata un qualcosa di cui non parlare e non pensare, una sorta di tabù. L’artista Damien Hirst con il suo teschio ricoperto di diamanti, esposto eccezionalmente a Palazzo Vecchio a Firenze, mostra ciò che l’uomo vuole nascondere: la paura della morte, esorcizzandola, facendola addirittura diventare bella, magnifica, la cui luce sconfigge le tenebre da sempre associate ad essa. Ma appare anche come un segno provocatorio di fronte all’incapacità dell’uomo di oggi di riflettere sul senso della vita e sul suo limite.

Nel passato non era così: la morte è stata anche uno dei grandi temi dell’arte, in particolare dal Trecento, quando, soprattutto in area franco tedesca, si assiste a un proliferare di rappresentazioni che rivelano un particolare gusto per il macabro: i “trionfi della morte”, ma anche le “danze macabre” o l’“incontro dei tre morti e dei tre vivi”. Quest’ultima iconografia trae origine dall’affascinante e inquietante opera francese di Baudouin de Condé, scritta nel 1275, che racconta di tre giovani e bei cavalieri che, durante una cavalcata, incontrano tre morti viventi, che li ammoniscono dicendo: “Ciò che sarete voi, noi siamo adesso. Chi si scorda di noi, scorda se stesso“.

In Italia e soprattutto nel nord, vi sono tanti esempi di luoghi che evocano questo racconto; per esempio a Milano vi è una piccola cappella seicentesca che sorge sul luogo dell’antico cimitero di Porta Vercellina, istituito in conseguenza della peste che colpì la città nel 1630. La facciata di tale cappella mostra proprio la frase pronunciata dai tre morti viventi nel racconto diventato leggenda. Ma gli esempi che si possono fare sono migliaia.

 

 

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Damien Hirst a Palazzo Vecchio: tra le gioie dello Studiolo uno scheletro di diamanti

Evento eccezionale è quello che si volge a Palazzo Vecchio a Firenze fino al 1 maggio 2011: nella Camera del Duca Cosimo, passando attraverso lo Studiolo di Francesco I de’ Medici si potrà vedere un’opera che non ha precedenti nella storia dell’arte e che ha fatto molto discutere, insieme alle altre opere dell’artista inglese Damien Hirst. Si tratta di “For the Love of God” (“Per l’amor di Dio”) ed è un teschio tempestato di diamanti, diventato leggendario da quando venne esposto per la prima volta al White Cube di Londra (la galleria di Damien Hirst) nel 2007. Da allora l’opera è stata visibile solo un’altra volta prima dell’evento fiorentino, nel 2008, al Rijksmuseum di Amsterdam, attirando più di 250.000 presenze. Si tratta di un calco di platino di un teschio umano in scala reale tempestato di 8.601 diamanti al massimo grado di purezza o con pochissime imperfezioni, per un totale di 1.106,18 carati. Sulla fronte è incastonato un grande diamante rosa a forma di goccia anche noto come “la stella del teschio”. I denti sono stati ricavati da un cranio umano vero del Settecento acquistato da Hirst a Londra.

Non è a un caso se si è scelto proprio lo studiolo di Cosimo e Francesco de’ Medici per ospitare questo particolarissimo “gioiello”, perché tale ambiente è un vero e proprio scrigno prezioso creato per contenere meraviglie dell’arte e della tecnica, ma anche della scienza e dell’alchimia, della natura e dell’artificio. L’opera per certi versi si ricollega alla tradizione del “memento mori”, come oggetto che parla della transitorietà dell’esistenza umana. La frase in latino, letteralmente “ricordati che devi morire”, ha origine antichissima, deriva da una particolare usanza tipica dell’antica Roma. Infatti, la consuetudine voleva che, dopo una vittoria bellica, un generale rientrasse in città sfilando nelle strade e raccogliendo gli onori e la gloria dei cittadini, riuniti per celebrarne le gesta. Tutto questo clamore però poteva in qualche modo “montare la testa” al protagonista che quindi correva il rischio di essere sopraffatto dalla superbia e dalle manie di grandezza. Per evitare che ciò accadesse, un servo dei più umili veniva incaricato di ricordare all’autore dell’impresa la sua natura umana e per farlo pronunciava più volte questa frase che rimase nella memoria storica come monito, con lo scopo di tenere sempre presente l’idea della morte e quindi il senso della vita, destinata a finire. Verso la fine del Seicento, addirittura la frase divenne il motto dei monaci dell’ordine di stretta clausura dei trappisti, i quali si ripetevano tra loro continuamente la frase mentre, un poco per volta ogni giorno, si scavavano la fossa destinata ad accoglierli. Continua la lettura di Damien Hirst a Palazzo Vecchio: tra le gioie dello Studiolo uno scheletro di diamanti